Il progetto è una forma di poesia, ma anche un impegno concreto per le lavoratrici che vi sono coinvolte. Non è solo un tradizionale metodo di sussistenza, storicamente povero ma importante, ma anche un lavoro scacciapensieri, che permette di entrare in una specie di nenia, un’ipnosi da lavoro che non ha nulla a che vedere con quello delle macchine.

Alessandro Mendini

PROGETTO 2017
Stella Policroma

PROGETTO 2015

PROGETTO 2013

BIOGRAFIA
INTERVISTA

Architetto, cosa ci può dire di lei, dei suoi campi di interesse e della sua ricerca in generale?
Il mio percorso comincia con una laurea in Architettura, ma i miei interessi si sono poi progressivamente dilatati, toccando il design sia industriale che sperimentale (quello insomma che assomiglia all’arte), l’artigianato, la grafica, i mobili… In questa mia ricerca ho utilizzato tanti materiali diversi, come l’acciaio, il vetro soffiato, tutti i tipi di legno, il mosaico e la stoffa. In questo sperimentare fra tante forme sono approdato anche al merletto. Il filo rosso che lega tutti questi campi di interesse è comunque un metodo di lavoro e un sistema di immagini volto all’espressione di una poetica. Il mio lavoro tende sempre, a mio parere senza mai raggiungerlo, al bello, a un’utopia umanistica di poetica. Non a caso, infatti, sono poi “scivolato” anche nella letteratura, interessandomi particolarmente a Proust. Io ritengo che questi miei oggetti siano i personaggi di un romanzo, un romanzo autobiografico.

Davvero interessante! Vuole dirci qualcosa più nello specifico dei progetti di cui si è occupato negli ultimi due anni?
Negli ultimi tempi lavoro prevalentemente in Corea, con progetti anche molto diversi fra loro, che spaziano dall’architettura alla grafica alla ceramica passando per gli interni di ambienti. Da un po’ di tempo, poi, vengono organizzate mostre sul mio lavoro. Queste mostre sono allo stesso tempo progetti a cui lavorare e occasioni per fare il punto della situazione. Attualmente ne sono in programma una in Triennale1 e una in Olanda, a Groningen, proprio nel museo che abbiamo fatto noi2. Recentemente ne è stata tenuta una a Seul3 e una più piccola sta per essere inaugurata a Capri4.

Nota molte differenze lavorando all’estero e in Italia?
Il metodo di lavoro è sempre lo stesso: si sviluppano progetti, si risolvono situazioni. Ogni Paese, però, ha le sue specificità, la sua antropologia, il suo carattere, le sue regole e le sue abitudini. Entrare in contatto con le abitudini italiane, anche se diverse fra loro, è immediato, mentre è assai più difficile farlo con quelle ad esempio olandesi, per non parlare di quelle dell’estremo Oriente.

E per quanto riguarda il mercato e le sue richieste?
Beh, i mercati hanno talmente tante sfaccettature che sono sempre diversi! I fruitori, il pubblico sono diversi. A volte si ha a che fare con un utente più ingenuo, a volte più sofisticato. Ciò che però è davvero importante è approcciarsi sempre con rispetto alla realtà dei luoghi: non si può andare in un altro Paese con l’atteggiamento dei colonizzatori.

Entriamo quindi nel discorso dell’etica professionale. Secondo lei, nel design di oggi se ne può ancora parlare?
Spero di sì. Purtroppo si cerca sempre di più di non farlo, ma bisogna. La parola “etica” è una parola importante.

Diceva prima che fra i suoi numerosi progetti si è occupato anche di artigianato. Che cosa pensa del rapporto fra innovazione e tradizione? Esiste un collegamento fra questi due elementi?
Esiste, e curiosamente il punto di aggancio è il lusso. In questo momento, il lusso attinge molto alle capacità artigianali. Così fa, ad esempio, Dolce&Gabbana: i due stilisti prendono ispirazione dai laboratori e dalle immagini della tradizione siciliana, a cui aggiungono la loro inventività per dare origine a qualcosa di nuovo e innovativo, che mescola il vecchio a tecnologie molto evolute. Su scala più ampia, questo avviene anche fra la moda e l’artigianato africano. Ci sono stilisti, fra cui anche Louis Vuitton, che fanno lavorare piccoli laboratori in Africa, abilissimi a creare quei tessuti di perline che poi loro applicano sui loro capi. La parola “lusso”, a mio parere, è terrificante, ma bisogna riconoscere che nel caso specifico dell’adattamento fra vecchio e nuovo permette molta nuova sperimentazione.

Crede che questo possa essere un aiuto, un buon punto di partenza per un artista o un designer che voglia sperimentare?
È una delle possibilità. Il vero buon punto di partenza, però, sarebbe comprarsi un tornio e mettersi a fare i il vasaio in campagna, autonomamente, magari però utilizzando tecniche di stampaggio in 3D. Quello che oggi è ormai un po’ obsoleto è la formula storica dell’industria, che procede un po’ stantia, incapace di fornire ai designer una sufficiente capacità reattiva per dare una risposta ideativa e creativa nuova. Bisogna trovare dei sistemi di energia. Certo non è facile al giorno d’oggi.

Ma crede che sia una soluzione realistica? L’artigianato oggi può davvero dare possibilità di sopravvivenza ai giovani o è un’utopia, un’attività da svolgere parallelamente a quella principale?
Io, ad esempio, ogni tanto vengo chiamato ad operare in una situazione di artigianato che sta morendo, come quello della lacca cinese su legno o del vetro in Tunisia. Mi chiedono invenzioni nuove, ma ci sono cose che purtroppo sono destinate a finire. In altri contesti, invece, ci sono buone possibilità. È il caso, per esempio, dell’artigianato della Formula 1: quelle macchine sono fatte a mano, utilizzando però un’altissima tecnologia e singoli pezzi realizzati a livello assolutamente industriale. È così evidente come in un singolo oggetto ci possa essere una gran quantità di elementi di contraddizione. Ma se storicamente la contrapposizione fra artigianato e industria era per così dire di guerra, adesso queste due realtà convivono e spesso sono sposate, integrate fra loro.

Per quanto invece riguarda la sua collaborazione al progetto Merletti e Design 2017, qual è stato il motivo che l’ha spinta a partecipare?
Sicuramente la forza energetica della Presidente, la Sig.ra Casartelli, che è ripetutamente venuta da me con delle bravissime merlettaie che vivono una storia romantica di grandissima qualità. Questa storia è centrata un po’ sul sacro, con i suoi paramenti liturgici, e un po’ sul profano, con oggetti di tradizione la cui realizzazione può essere paragonata a un balletto per il fascino del movimento delle mani delle merlettaie. Nel corso della mia carriera, a un certo punto avevo avuto qualche rapporto, ma solo a livello teorico di conoscenza, con i merletti abruzzesi e belgi; in questo modo ero venuto a sapere che alcuni architetti milanesi storici, come Buzzi e Ponti, avevano creato merletti in varie occasioni. Ho così deciso di mantenere questo filone espressivo così delicato, con la sua trasparenza fatta col filo, quasi come un baco da seta. Il pizzo ha una grande forza poetica, così per tre o quattro volte ho disegnato dei merletti, come questo, che è una stella policroma.

Il merletto come forma di poesia, quindi.
Certo. È una forma di poesia, ma anche un impegno concreto per le lavoratrici che vi sono coinvolte. Non è solo un tradizionale metodo di sussistenza, storicamente povero ma importante, ma anche un lavoro scacciapensieri, che permette di entrare in una specie di nenia, un’ipnosi da lavoro che non ha nulla a che vedere con quello delle macchine.